Ventunesimo Colloquio di Musicologia
del «Saggiatore musicale»
Bologna, 17-19 novembre 2017
Abstracts
Alessandro Mastropietro (Catania)
“Amore e Psiche” di Sciarrino: una drammaturgia musicale tra organico e mito
Il primo titolo teatrale di Sciarrino, Amore e Psiche (“opera in un atto”, 1971-72), debutta alla Piccola Scala nel marzo 1973, in una fase di generale ripensamento, in Italia, delle coordinate estetico-compositive di un nuovo teatro musicale, e di quella fase rappresenta già un passo emblematico. Sciarrino aveva concluso la sua formazione autodidattica nel contesto delle Settimane Nuova Musica di Palermo, dove le proposte di teatro musicale (concentratesi nelle ultime due edizioni del 1965 e del 1968) avevano suggellato le linee portanti di quel decennio di sperimentazione nel campo, ovvero: 1) la linea della gestualità, quindi l’annessione di/sconfinamento in domini performativi eterodossi da quello tout-court musicale di partenza; 2) l’autonomia di principio dei rispettivi flussi di azione/informazione, da relazionare tra loro in soluzioni collocabili tra i poli di un contrappunto più o meno puntuale o elastico, e di una mera com-presenza spazio-temporale à la Cage.
Il giovanissimo Sciarrino aveva già saggiato la linea gestuale (Atto e Atto II, 1965), ma in Amore e Psiche il problema di una drammaturgia organica – implicito nel secondo punto – balza in primo piano, per essere diversamente risolto: l’organicità risiede in processi compositivi e sonori, le cui configurazioni si proiettino su tutte le componenti della drammaturgia (struttura verbale/drammatica, vocalità, impianto scenico-visuale, movimenti scenici ecc.). La chiave di tale ‘organismo’ è qui lo specchio, che scinde, moltiplica e rifrange fino alla polverizzazione – ma parimenti risintetizza in un rizoma timbrico – figure sonore fondamentali e materiali armonici predisposti, oltre a pervadere la specifica, iper-ornamentale condotta di canto. D’altra parte, è evidente il ribaltamento del fronte tematico attuato dall’opera, rispetto alla tendenza civile-documentaria o a quella ascendenza dada-surrealista espresse da buona parte del teatro musicale sperimentale fino ad allora: il soggetto mitologico, e l’iperbolico stile poetico con il quale il ‘librettista’ Aurelio Pes lo presenta, sono il luogo d’indagine di meccanismi primari (che riguardano anche il suono) e di stratificazioni profonde di senso. L’esperienza cui essi paiono concorrere sembra voler darsi anzitutto come drammaturgia dell’ascolto: l’identico e l’analogo vi generano un tempo sospeso, allucinatorio, ricreando continuamente eventi ondulatori ed esplosivi, in una sorta di cosmogonia qui rivolta alla parte centrale (la morte) di un classico ciclo ternario.
Questi aspetti sono stati esaminati alla luce degli schizzi conservati presso la Paul-Sacher Stiftung, delle testimonianze dei protagonisti della vicenda creativa e performativa (tra cui quella di Pes), e della documentazione riguardante la première scaligera, in occasione della quale proprio un deficit di organicità dell’allestimento rispetto all’impianto compositivo generò vicissitudini e polemiche: non per caso, il lavoro fu realizzato in seguito solo in forma di concerto o di radiodramma (Il pozzo, 1976).